giovedì 23 novembre 2023

Paola Di Toro - Stato liquido

 



LA POESIA VISIONARIA DIPINTA DI BLU: PAOLA DI TORO  - STATO LIQUIDO

Quando mi sono accomodato sul divano della Di Toro inklines avevo considerato il titolo di questa raccolta come meta, invece la meta è stata la fluidità del “viaggio”.   La sua parte dura riposa in quel che rimane dentro di sé, scrive la poetessa molisana, ma leggendo Stato liquido mi è venuto il dubbio che Paola non  riposi mai, conforme al mare, mai ferma, e proprio il mare, adottato a metafora, è il protagonista di questa raccolta poetica. Con discreta precisione posso affermare che la Di Toro è divenuta poeta per “errore” [c’è un salto nel vuoto / ed una ferita.] saltando nel vuoto ha trovato un mare d’inchiostro a liberarla, a concederle l’opportunità di mettere in risalto la qualità della propria anima, liberata da che cosa sarà compito del lettore più attento portarlo alla luce attraverso un’attenta lettura. A tratti pare scriva col pensiero che nessuno la possa leggere, una sorta di diario intimo, mantenuto in ordine dagli scarabocchi procurati dalle insicurezze che ogni giorno appaiono sempre più grandi […un volo delle mani / che migra / e fa altra dimora ] sempre più incerte, come le domande a punto interrogativo fantasma che si pone [ Tu resti. (?)] Il mare è come il sangue (?) Il blu può essere considerato un sostituto del rosso? Queste domande che mi pongo, dopo avere letto Paola Di Toro, non richiedono una predisposizione alla risposta, la metafora della vita non ha mai una risposta che valga per tutti, ma nel caso specifico ho provato a dare una replica alla mia curiosità e l’ho trovata: [rimango / ancora aggrappata al tuo sangue come ci si aggrappa al pensiero del mare quando la vita trascorre senza scorrere: Stato liquido [Se ti va potremmo incontrarci in quei giorni che piove col sole… mentre di qua le teste rimangono e sono tutte bagnate]. Paola Di Toro entra nel buio dell’inchiostro per trovare luce, per donarla come si dona la gioia, certi passaggi la fanno apparire come la bambina all’esordio in mare, la quale sbatte le braccia per far schizzare l’acqua ed è felice, così la ritrovo quando più o meno sfumatamente descrive in versi il rapporto con le sue figlie, ciò che rimane alla fine di ogni caduta. L’alfabeto di Paola Di Toro non è composto di parole ma di sentimenti, serba in sé la memoria dell’acqua chele rimane dentro, forse da qui il suo essere accompagnata in ogni verso da una forma liquida di sdoppiamento, il sapersi destreggiare all’interno di un vuoto complice della fortuna di perdere il nome e avere soltanto le scarpe ad aspettarla: lei nata per attraversare, lui per percepire l’incendio. 

“…un fruscio di foglie

appese ai rami alti.”

Alcuni saggisti del novecento sostengono che la poesia illumini solo le premesse e gli effetti inerenti una crisi esistenziale, nella sua silloge Di Toro crea specchi di luce standosene rintanata nel buio. Facendo riferimento al verso riportato sopra: che sia, lei, il vento? Di Toro comunica lo stretto contatto tra l’invariabilità, e la possenza del masso e la incerta e vulnerabile coscienza. Dovremo forse attenderci, in futuro, un ulteriore consolidamento dello Stato liquido? A me la fluidità del suo istinto è piaciuta.

“Arriva il tempo

che ci rompe

in nuvole d’ossa.

E la china della luce

ci inginocchia.

Siamo esseri

in discesa

e la pietà sola

ci sospende

come esca che risale

dal fondo della terra.”

 

 *

Paola Di Toro è nata in un sabato di sole d'autunno in molise, vive a Campobasso. Non Beve, non fuma, ha la capacità di entrare nelle bolle di sapone senza farle esplodere. Stato liquido (DELTA3EDIZIONI) è la sua opera prima.

 

mercoledì 8 novembre 2023

ELISABETTA SANCINO l'ocra in punta di lingua

 


RISCATTARSI ATTRAVERSO LA MISERIA: L'OCRA IN PUNTA DI LINGUA di ELISABETTA SANCINO

Cercare di interpretare un poeta è un po' come cercare di dare un’esegesi al sogno: chi realmente può essere in grado di dare un significato ad esso? La nuova silloge di Elisabetta Sancino prende corpo dalle ceneri del bivio al quale l’umanità si è trovata di fronte. Difficile per ognuno di noi trovare o trovarsi una collocazione, meno complicato per il poeta che, a mio sentire, non sta mai dalla propria parte (almeno così dovrebbe essere) ma dalla parte dei dimenticati dalla vita. L’ocra in punta di lingua innalza lo spessore poetico, già di per sé elevato, di Elisabetta Sancino, lasciando trasparire una inversione di rotta rispetto al passato. Ora non è più lei a trovarsi al centro delle proprie attenzioni, ma bensì è lei attraverso gli altri, nello specifico la poetessa milanese narra la solitudine della metropoli vista attraverso gli occhi di una clochard indigena, soprannominata Boudicca la rossa per la sua propensione di indomita guerriera, una donna coraggiosa, scampata per propria scelta a una vita di soprusi, decisa ad abbandonare ogni cosa in cambio della propria libertà.  Boudicca mette a nudo la miseria, la sconfitta della persona normale, o normalizzata, aggrappata a qualsiasi comodità pur di non soccombere. Boudicca ci osserva, senza proferire parola, con i suoi occhi color azzurro infinito, tiene ogni giorno lezioni di vita nella Milano da bere, quella Milano che nessun poeta è mai riuscito a scrivere con così tanta attenzione come fa in questa silloge “la donna bionda che passa e sorride”, piccolo cameo che la poetessa si concede, in stile hitchcockiano, anche se l’orrore qui non ha attinenza alcuna, se non nell’indifferenza da noi portata, nella tendenza ad escludere persone che non fanno della viltà il proprio stile di vita. Boudicca pare avere una obiettività naturale di giudizio, frequentemente, infatti, si può captare una reiterazione nella descrizione ordinaria, che va a sottolineare e, paradossalmente, avvicinare l’opposizione tra l’osservare e l’essere osservati. Elisabetta Sancino argomenta la frammentazione del dolore, la vedo dipingere le proprie parole sui muri della stazione centrale, luogo dove sono ambientati alcuni estratti, intenta a cercare di dire brevemente quanto sia grande la sofferenza di una città sola, calpestata da centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Questo è un lavoro importante, cancella d’emblée l’ipocrisia celata nella poesia “da branco”, svenduta alla temporaneità del successo. Anche la solitudine è come l’appartenere a un ceto, Sancino pare essere laureata in filofoschia, conosce quel buio che aggredisce, con i suoi lutti, ad ogni novembre i colori, le case. L’acre gentilezza del mattino rende più povera l’idea manifestata di interagire con eredi obsoleti di cara memoria. L’ocra in punta di lingua ci insegna che non ha senso provare pietà per il proprio corpo, la parola viene innescata dalla rivolta dell’istinto nei confronti del pensiero esterno. La metrica delle stagioni funziona se lo stupore d’erbe si erge a barriera tra i due confini che separano l’individuo dal prossimo suo. L’ocra in punta di lingua è una tentata fuga, applica la sparizione, che non necessariamente equivale a una morte fisica, come diversivo, altera il modo di vedere le cose, come una finzione non programmata si aggrappa ad essa, a quello che resta – al risveglio- di un sogno.

“Io non mi chiamo più
il mio nome è la scossa permanente
nei pantografi di piazza Cordusio è lo stupore di sapermi al mondo.”

Ho amato fin da subito questa silloge per un motivo in particolare: sovente leggo, nel poeta, l’assassino, il quale sembra dirti che è stato costretto ad uccidere poiché si è dovuto difendere, senza comprendere che il proprio compito sarebbe quello di diminuire il dislivello tra solitudine e società e non di contribuire ad ampliarlo. Invece esco da queste pagine convinto che la penna della Sancino sia l’unica arma di difesa che Boudicca e Milano abbiano a disposizione per farci capire dove e in cosa stiamo sbagliando, Sancino chiede parole di rondini in volo e non macchine e beni in superofferta, chiede di potersi svegliare sotto nuvole rosa per distinguersi dal grembo buio della città. Spero di aver recepito il messaggio trasmesso da quest'opera, di aver compreso il senso delle sfumature riflesse che vanno a completare le nostre mancanze. I ritratti sono pennellate di coscienza, con le quali riesce ad avvicinarsi alla morte da una prospettiva meno oscura di come viene immaginata. 

[…Accade spesso anche a te
debolmente felice oltre un vetro
ma ci sono cose che splendono.]

*
Elisabetta Sancino, da Inzago, festeggia il compleanno ogni 10 di novembre, è docente di lingua e letteratura inglese e guida turistica a Milano. Abbiamo 23 amici in comune su Facebook, non fuma, beve tè, adora viaggiare, ha pubblicato cinque raccolte di poesia:

Frammenti viola (2016 - 96, Rue, de-La-Fontaine)
Sbilanciamenti interiori (2017 - Vitale Edizioni)
Il pomeriggio della tigre (2018 . Terra d'Ulivi)
Collezione privata (2021- Puntoacapo)
L'ocra in punta di lingua (2023 - LietoColle)
*li ho letti tutti

giovedì 2 novembre 2023

Carmine Mangone




LA RIVOLUZIONE ANTI SEMIOTICA 

DI 

CARMINE MANGONE

 “Non ho mai avuto un alfabeto tranquillo, servile,
   le pagine le giravo sempre con il fuoco.”

Nessuno meglio di questo verso, di Claudio Lolli, credo sarebbe in grado di descrivere la poesia di Carmine Mangone, a mio modesto parere uno dei più grandi poeti viventi. “Incastrato tra fuoco e lacrime” è un capolavoro di lotta e resistenza, una silloge solitaria volta a schiantarsi contro il marasma del quotidiano sopore democratico.

“…lontano/nelle città dove si massacrano i/ bambini a colpi di favole/ il rigagnolo dei pensieri che io sono/ via crucis/ con fermate a richiesta dove scende la notte.”

Niente è più realistico dell’assurdo, Mangone questo lo ha compreso e, consapevole del fatto che solo nella lotta si è vivi, cerca di trasmettere la propria visione – anti semiotica – di un mondo ‘parcheggiato’ in divieto di sosta da oramai troppi lustri.
Pare di comprendere, dai suoi versi, che il vero rivoluzionario sia l’antirivoluzionario, lungimirante nella prospettiva che pure la morte vada guadagnata in questa società dove non si produce più nulla, nemmeno parole.

“sfidare le cose
armarsi del proprio sangue
banale squisitezza del dolore
il dramma nel corpo che è la vita.”

La poesia come scoscendimento di questa matrioska di modelli che formano il pianeta per disinformarlo attraverso un linguaggio minimale e insignificante. Mi rendo conto di avere tra le mani un oggetto ‘violento’, ‘sovversivo’, ma infinitamente prezioso, forse il più prezioso tra tutte le cose che abitano questa casa. L’unica cosa che posso fare, ora, è donarlo, divulgare a chi voglio bene questo pensiero, ho avuto la fortuna di averlo e come dice un antico proverbio; tutto ciò che dai è tuo per sempre, tutto ciò che tieni è perduto. Carmine Mangone è un figlio delle stelle, un gladiatore di espressione, un risvegliato.Y

“un cazzo coronato di spine
il vuoto osceno della morte
faccio cucù agli imbecilli
e ai loro impacchi di spirito santo”

CARMINE MANGONE – INCASTRATO TRA FUOCO E LACRIME ( CITY LIGHTS ITALIA – 1998) in appendice: ANCHE IERI HO DIMENTICATO DI MORIRE - seconda edizione (1993) e NON DENTRO METAFORA - Parigi 1998 (feat. ANTONIO BERTOLI)

ENCICLOPEDIA DEL FAR NIENTE la crestomazia sbriciolata di un sé - Nota critica di FRANCA ALAIMO e quattro poesie controindicate.

  In genere le sezioni di un libro servono a sottolineare le diverse tappe tematiche del discorso. Ed, invece, in "Enciclopedia del far...