RISCATTARSI ATTRAVERSO LA MISERIA: L'OCRA IN PUNTA DI LINGUA di ELISABETTA SANCINO
Cercare di interpretare un poeta è un po' come cercare di dare un’esegesi al sogno: chi realmente può essere in grado di dare un significato ad esso? La nuova silloge di Elisabetta Sancino prende corpo dalle ceneri del bivio al quale l’umanità si è trovata di fronte. Difficile per ognuno di noi trovare o trovarsi una collocazione, meno complicato per il poeta che, a mio sentire, non sta mai dalla propria parte (almeno così dovrebbe essere) ma dalla parte dei dimenticati dalla vita. L’ocra in punta di lingua innalza lo spessore poetico, già di per sé elevato, di Elisabetta Sancino, lasciando trasparire una inversione di rotta rispetto al passato. Ora non è più lei a trovarsi al centro delle proprie attenzioni, ma bensì è lei attraverso gli altri, nello specifico la poetessa milanese narra la solitudine della metropoli vista attraverso gli occhi di una clochard indigena, soprannominata Boudicca la rossa per la sua propensione di indomita guerriera, una donna coraggiosa, scampata per propria scelta a una vita di soprusi, decisa ad abbandonare ogni cosa in cambio della propria libertà. Boudicca mette a nudo la miseria, la sconfitta della persona normale, o normalizzata, aggrappata a qualsiasi comodità pur di non soccombere. Boudicca ci osserva, senza proferire parola, con i suoi occhi color azzurro infinito, tiene ogni giorno lezioni di vita nella Milano da bere, quella Milano che nessun poeta è mai riuscito a scrivere con così tanta attenzione come fa in questa silloge “la donna bionda che passa e sorride”, piccolo cameo che la poetessa si concede, in stile hitchcockiano, anche se l’orrore qui non ha attinenza alcuna, se non nell’indifferenza da noi portata, nella tendenza ad escludere persone che non fanno della viltà il proprio stile di vita. Boudicca pare avere una obiettività naturale di giudizio, frequentemente, infatti, si può captare una reiterazione nella descrizione ordinaria, che va a sottolineare e, paradossalmente, avvicinare l’opposizione tra l’osservare e l’essere osservati. Elisabetta Sancino argomenta la frammentazione del dolore, la vedo dipingere le proprie parole sui muri della stazione centrale, luogo dove sono ambientati alcuni estratti, intenta a cercare di dire brevemente quanto sia grande la sofferenza di una città sola, calpestata da centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Questo è un lavoro importante, cancella d’emblée l’ipocrisia celata nella poesia “da branco”, svenduta alla temporaneità del successo. Anche la solitudine è come l’appartenere a un ceto, Sancino pare essere laureata in filofoschia, conosce quel buio che aggredisce, con i suoi lutti, ad ogni novembre i colori, le case. L’acre gentilezza del mattino rende più povera l’idea manifestata di interagire con eredi obsoleti di cara memoria. L’ocra in punta di lingua ci insegna che non ha senso provare pietà per il proprio corpo, la parola viene innescata dalla rivolta dell’istinto nei confronti del pensiero esterno. La metrica delle stagioni funziona se lo stupore d’erbe si erge a barriera tra i due confini che separano l’individuo dal prossimo suo. L’ocra in punta di lingua è una tentata fuga, applica la sparizione, che non necessariamente equivale a una morte fisica, come diversivo, altera il modo di vedere le cose, come una finzione non programmata si aggrappa ad essa, a quello che resta – al risveglio- di un sogno.
Ho amato fin da
subito questa silloge per un motivo in particolare: sovente leggo, nel poeta,
l’assassino, il quale sembra dirti che è stato costretto ad uccidere poiché si
è dovuto difendere, senza comprendere che il proprio compito sarebbe quello di
diminuire il dislivello tra solitudine e società e non di contribuire ad
ampliarlo. Invece esco da queste pagine convinto che la penna della Sancino sia
l’unica arma di difesa che Boudicca e Milano abbiano a disposizione per farci
capire dove e in cosa stiamo sbagliando, Sancino chiede parole di rondini in
volo e non macchine e beni in superofferta, chiede di potersi svegliare
sotto nuvole rosa per distinguersi dal grembo buio della città. Spero di aver
recepito il messaggio trasmesso da quest'opera, di aver compreso il senso delle
sfumature riflesse che vanno a completare le nostre mancanze. I ritratti sono
pennellate di coscienza, con le quali riesce ad avvicinarsi alla morte da una
prospettiva meno oscura di come viene immaginata.

