mercoledì 8 novembre 2023

ELISABETTA SANCINO l'ocra in punta di lingua

 


RISCATTARSI ATTRAVERSO LA MISERIA: L'OCRA IN PUNTA DI LINGUA di ELISABETTA SANCINO

Cercare di interpretare un poeta è un po' come cercare di dare un’esegesi al sogno: chi realmente può essere in grado di dare un significato ad esso? La nuova silloge di Elisabetta Sancino prende corpo dalle ceneri del bivio al quale l’umanità si è trovata di fronte. Difficile per ognuno di noi trovare o trovarsi una collocazione, meno complicato per il poeta che, a mio sentire, non sta mai dalla propria parte (almeno così dovrebbe essere) ma dalla parte dei dimenticati dalla vita. L’ocra in punta di lingua innalza lo spessore poetico, già di per sé elevato, di Elisabetta Sancino, lasciando trasparire una inversione di rotta rispetto al passato. Ora non è più lei a trovarsi al centro delle proprie attenzioni, ma bensì è lei attraverso gli altri, nello specifico la poetessa milanese narra la solitudine della metropoli vista attraverso gli occhi di una clochard indigena, soprannominata Boudicca la rossa per la sua propensione di indomita guerriera, una donna coraggiosa, scampata per propria scelta a una vita di soprusi, decisa ad abbandonare ogni cosa in cambio della propria libertà.  Boudicca mette a nudo la miseria, la sconfitta della persona normale, o normalizzata, aggrappata a qualsiasi comodità pur di non soccombere. Boudicca ci osserva, senza proferire parola, con i suoi occhi color azzurro infinito, tiene ogni giorno lezioni di vita nella Milano da bere, quella Milano che nessun poeta è mai riuscito a scrivere con così tanta attenzione come fa in questa silloge “la donna bionda che passa e sorride”, piccolo cameo che la poetessa si concede, in stile hitchcockiano, anche se l’orrore qui non ha attinenza alcuna, se non nell’indifferenza da noi portata, nella tendenza ad escludere persone che non fanno della viltà il proprio stile di vita. Boudicca pare avere una obiettività naturale di giudizio, frequentemente, infatti, si può captare una reiterazione nella descrizione ordinaria, che va a sottolineare e, paradossalmente, avvicinare l’opposizione tra l’osservare e l’essere osservati. Elisabetta Sancino argomenta la frammentazione del dolore, la vedo dipingere le proprie parole sui muri della stazione centrale, luogo dove sono ambientati alcuni estratti, intenta a cercare di dire brevemente quanto sia grande la sofferenza di una città sola, calpestata da centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Questo è un lavoro importante, cancella d’emblée l’ipocrisia celata nella poesia “da branco”, svenduta alla temporaneità del successo. Anche la solitudine è come l’appartenere a un ceto, Sancino pare essere laureata in filofoschia, conosce quel buio che aggredisce, con i suoi lutti, ad ogni novembre i colori, le case. L’acre gentilezza del mattino rende più povera l’idea manifestata di interagire con eredi obsoleti di cara memoria. L’ocra in punta di lingua ci insegna che non ha senso provare pietà per il proprio corpo, la parola viene innescata dalla rivolta dell’istinto nei confronti del pensiero esterno. La metrica delle stagioni funziona se lo stupore d’erbe si erge a barriera tra i due confini che separano l’individuo dal prossimo suo. L’ocra in punta di lingua è una tentata fuga, applica la sparizione, che non necessariamente equivale a una morte fisica, come diversivo, altera il modo di vedere le cose, come una finzione non programmata si aggrappa ad essa, a quello che resta – al risveglio- di un sogno.

“Io non mi chiamo più
il mio nome è la scossa permanente
nei pantografi di piazza Cordusio è lo stupore di sapermi al mondo.”

Ho amato fin da subito questa silloge per un motivo in particolare: sovente leggo, nel poeta, l’assassino, il quale sembra dirti che è stato costretto ad uccidere poiché si è dovuto difendere, senza comprendere che il proprio compito sarebbe quello di diminuire il dislivello tra solitudine e società e non di contribuire ad ampliarlo. Invece esco da queste pagine convinto che la penna della Sancino sia l’unica arma di difesa che Boudicca e Milano abbiano a disposizione per farci capire dove e in cosa stiamo sbagliando, Sancino chiede parole di rondini in volo e non macchine e beni in superofferta, chiede di potersi svegliare sotto nuvole rosa per distinguersi dal grembo buio della città. Spero di aver recepito il messaggio trasmesso da quest'opera, di aver compreso il senso delle sfumature riflesse che vanno a completare le nostre mancanze. I ritratti sono pennellate di coscienza, con le quali riesce ad avvicinarsi alla morte da una prospettiva meno oscura di come viene immaginata. 

[…Accade spesso anche a te
debolmente felice oltre un vetro
ma ci sono cose che splendono.]

*
Elisabetta Sancino, da Inzago, festeggia il compleanno ogni 10 di novembre, è docente di lingua e letteratura inglese e guida turistica a Milano. Abbiamo 23 amici in comune su Facebook, non fuma, beve tè, adora viaggiare, ha pubblicato cinque raccolte di poesia:

Frammenti viola (2016 - 96, Rue, de-La-Fontaine)
Sbilanciamenti interiori (2017 - Vitale Edizioni)
Il pomeriggio della tigre (2018 . Terra d'Ulivi)
Collezione privata (2021- Puntoacapo)
L'ocra in punta di lingua (2023 - LietoColle)
*li ho letti tutti

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