sabato 16 dicembre 2023

Romina Capo

 



LA POETICA CHIASTICA DI ROMINA CAPO

Romina Capo è un poeta sparpagliato nell’’universo, come le foglie: non riesco a trovarle una collocazione, un riferimento che mi possa rimandare ad altri poeti, ad altri scrittori forse, qualcosa, ma lei non fa solamente poesia, lei vive la poesia rimanendo fuori da tutto il resto. Leggendo i suoi versi ho imparato che di un dolore rimane sempre addosso l’odore, e questo è ciò che rimane della poesia di Romina una volta assimilata, anche se, durante una prima lettura dei suoi testi, ho spesso rischiato la banalità di cadere nel giudizio, dato che il ritmo imposto da Romina Capo si compone di un personalissimo look e risulta molto accattivante una volta che vi si riesce a entrare, a farne parte. Un linguaggio solido, già fin dalla sua prima breve composizione, “NaÏve”, confermato poi con “Appendici” -scaricabile gratuitamente online- Romina Capo sfoggia con maestria assoluta la difficoltà primaria di questo tempo, consistente nel riuscire a comunicare con il prossimo, a costruire relazioni che non siano solamente didascalie. Capo sa adoperare in maniera efficace le parole, sebbene si noti che non è assolutamente fatta per i giri di parole, lo si evince soprattutto dal lato passionale, quando lo esprime, dove pare non essere mai in bilico, dove tutto trema al cospetto del suo sguardo poetico. Praticità, legata a una (poco) velata tristezza e a un intrigante erotismo, una malinconia meriniana (se proprio devo citare un poeta) a dirigere il traffico di accadimenti. Testa sempre alta: vive sugli alberi la poesia di Romina Capo, e ci guarda tutti.




Romina Capo è nata a Venezia, sotto il segno dello scorpione, il giorno prima di Camille Rose Garcia e il giorno dopo Dennis Kelly. Abita il mondo. Altro.

Romina Capo - NaÏve (2007 - IL FILO)

Romina Capo - Appendici (2010 - Clepsydra Edizioni)

Romina Capo & Carmine Mangone - Eroticardio (2018- Maldoror press)

Romina Capo & Carmine Mangone - Più cocciuti della morte ( 2023 - Ab imis)

giovedì 23 novembre 2023

Paola Di Toro - Stato liquido

 



LA POESIA VISIONARIA DIPINTA DI BLU: PAOLA DI TORO  - STATO LIQUIDO

Quando mi sono accomodato sul divano della Di Toro inklines avevo considerato il titolo di questa raccolta come meta, invece la meta è stata la fluidità del “viaggio”.   La sua parte dura riposa in quel che rimane dentro di sé, scrive la poetessa molisana, ma leggendo Stato liquido mi è venuto il dubbio che Paola non  riposi mai, conforme al mare, mai ferma, e proprio il mare, adottato a metafora, è il protagonista di questa raccolta poetica. Con discreta precisione posso affermare che la Di Toro è divenuta poeta per “errore” [c’è un salto nel vuoto / ed una ferita.] saltando nel vuoto ha trovato un mare d’inchiostro a liberarla, a concederle l’opportunità di mettere in risalto la qualità della propria anima, liberata da che cosa sarà compito del lettore più attento portarlo alla luce attraverso un’attenta lettura. A tratti pare scriva col pensiero che nessuno la possa leggere, una sorta di diario intimo, mantenuto in ordine dagli scarabocchi procurati dalle insicurezze che ogni giorno appaiono sempre più grandi […un volo delle mani / che migra / e fa altra dimora ] sempre più incerte, come le domande a punto interrogativo fantasma che si pone [ Tu resti. (?)] Il mare è come il sangue (?) Il blu può essere considerato un sostituto del rosso? Queste domande che mi pongo, dopo avere letto Paola Di Toro, non richiedono una predisposizione alla risposta, la metafora della vita non ha mai una risposta che valga per tutti, ma nel caso specifico ho provato a dare una replica alla mia curiosità e l’ho trovata: [rimango / ancora aggrappata al tuo sangue come ci si aggrappa al pensiero del mare quando la vita trascorre senza scorrere: Stato liquido [Se ti va potremmo incontrarci in quei giorni che piove col sole… mentre di qua le teste rimangono e sono tutte bagnate]. Paola Di Toro entra nel buio dell’inchiostro per trovare luce, per donarla come si dona la gioia, certi passaggi la fanno apparire come la bambina all’esordio in mare, la quale sbatte le braccia per far schizzare l’acqua ed è felice, così la ritrovo quando più o meno sfumatamente descrive in versi il rapporto con le sue figlie, ciò che rimane alla fine di ogni caduta. L’alfabeto di Paola Di Toro non è composto di parole ma di sentimenti, serba in sé la memoria dell’acqua chele rimane dentro, forse da qui il suo essere accompagnata in ogni verso da una forma liquida di sdoppiamento, il sapersi destreggiare all’interno di un vuoto complice della fortuna di perdere il nome e avere soltanto le scarpe ad aspettarla: lei nata per attraversare, lui per percepire l’incendio. 

“…un fruscio di foglie

appese ai rami alti.”

Alcuni saggisti del novecento sostengono che la poesia illumini solo le premesse e gli effetti inerenti una crisi esistenziale, nella sua silloge Di Toro crea specchi di luce standosene rintanata nel buio. Facendo riferimento al verso riportato sopra: che sia, lei, il vento? Di Toro comunica lo stretto contatto tra l’invariabilità, e la possenza del masso e la incerta e vulnerabile coscienza. Dovremo forse attenderci, in futuro, un ulteriore consolidamento dello Stato liquido? A me la fluidità del suo istinto è piaciuta.

“Arriva il tempo

che ci rompe

in nuvole d’ossa.

E la china della luce

ci inginocchia.

Siamo esseri

in discesa

e la pietà sola

ci sospende

come esca che risale

dal fondo della terra.”

 

 *

Paola Di Toro è nata in un sabato di sole d'autunno in molise, vive a Campobasso. Non Beve, non fuma, ha la capacità di entrare nelle bolle di sapone senza farle esplodere. Stato liquido (DELTA3EDIZIONI) è la sua opera prima.

 

mercoledì 8 novembre 2023

ELISABETTA SANCINO l'ocra in punta di lingua

 


RISCATTARSI ATTRAVERSO LA MISERIA: L'OCRA IN PUNTA DI LINGUA di ELISABETTA SANCINO

Cercare di interpretare un poeta è un po' come cercare di dare un’esegesi al sogno: chi realmente può essere in grado di dare un significato ad esso? La nuova silloge di Elisabetta Sancino prende corpo dalle ceneri del bivio al quale l’umanità si è trovata di fronte. Difficile per ognuno di noi trovare o trovarsi una collocazione, meno complicato per il poeta che, a mio sentire, non sta mai dalla propria parte (almeno così dovrebbe essere) ma dalla parte dei dimenticati dalla vita. L’ocra in punta di lingua innalza lo spessore poetico, già di per sé elevato, di Elisabetta Sancino, lasciando trasparire una inversione di rotta rispetto al passato. Ora non è più lei a trovarsi al centro delle proprie attenzioni, ma bensì è lei attraverso gli altri, nello specifico la poetessa milanese narra la solitudine della metropoli vista attraverso gli occhi di una clochard indigena, soprannominata Boudicca la rossa per la sua propensione di indomita guerriera, una donna coraggiosa, scampata per propria scelta a una vita di soprusi, decisa ad abbandonare ogni cosa in cambio della propria libertà.  Boudicca mette a nudo la miseria, la sconfitta della persona normale, o normalizzata, aggrappata a qualsiasi comodità pur di non soccombere. Boudicca ci osserva, senza proferire parola, con i suoi occhi color azzurro infinito, tiene ogni giorno lezioni di vita nella Milano da bere, quella Milano che nessun poeta è mai riuscito a scrivere con così tanta attenzione come fa in questa silloge “la donna bionda che passa e sorride”, piccolo cameo che la poetessa si concede, in stile hitchcockiano, anche se l’orrore qui non ha attinenza alcuna, se non nell’indifferenza da noi portata, nella tendenza ad escludere persone che non fanno della viltà il proprio stile di vita. Boudicca pare avere una obiettività naturale di giudizio, frequentemente, infatti, si può captare una reiterazione nella descrizione ordinaria, che va a sottolineare e, paradossalmente, avvicinare l’opposizione tra l’osservare e l’essere osservati. Elisabetta Sancino argomenta la frammentazione del dolore, la vedo dipingere le proprie parole sui muri della stazione centrale, luogo dove sono ambientati alcuni estratti, intenta a cercare di dire brevemente quanto sia grande la sofferenza di una città sola, calpestata da centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Questo è un lavoro importante, cancella d’emblée l’ipocrisia celata nella poesia “da branco”, svenduta alla temporaneità del successo. Anche la solitudine è come l’appartenere a un ceto, Sancino pare essere laureata in filofoschia, conosce quel buio che aggredisce, con i suoi lutti, ad ogni novembre i colori, le case. L’acre gentilezza del mattino rende più povera l’idea manifestata di interagire con eredi obsoleti di cara memoria. L’ocra in punta di lingua ci insegna che non ha senso provare pietà per il proprio corpo, la parola viene innescata dalla rivolta dell’istinto nei confronti del pensiero esterno. La metrica delle stagioni funziona se lo stupore d’erbe si erge a barriera tra i due confini che separano l’individuo dal prossimo suo. L’ocra in punta di lingua è una tentata fuga, applica la sparizione, che non necessariamente equivale a una morte fisica, come diversivo, altera il modo di vedere le cose, come una finzione non programmata si aggrappa ad essa, a quello che resta – al risveglio- di un sogno.

“Io non mi chiamo più
il mio nome è la scossa permanente
nei pantografi di piazza Cordusio è lo stupore di sapermi al mondo.”

Ho amato fin da subito questa silloge per un motivo in particolare: sovente leggo, nel poeta, l’assassino, il quale sembra dirti che è stato costretto ad uccidere poiché si è dovuto difendere, senza comprendere che il proprio compito sarebbe quello di diminuire il dislivello tra solitudine e società e non di contribuire ad ampliarlo. Invece esco da queste pagine convinto che la penna della Sancino sia l’unica arma di difesa che Boudicca e Milano abbiano a disposizione per farci capire dove e in cosa stiamo sbagliando, Sancino chiede parole di rondini in volo e non macchine e beni in superofferta, chiede di potersi svegliare sotto nuvole rosa per distinguersi dal grembo buio della città. Spero di aver recepito il messaggio trasmesso da quest'opera, di aver compreso il senso delle sfumature riflesse che vanno a completare le nostre mancanze. I ritratti sono pennellate di coscienza, con le quali riesce ad avvicinarsi alla morte da una prospettiva meno oscura di come viene immaginata. 

[…Accade spesso anche a te
debolmente felice oltre un vetro
ma ci sono cose che splendono.]

*
Elisabetta Sancino, da Inzago, festeggia il compleanno ogni 10 di novembre, è docente di lingua e letteratura inglese e guida turistica a Milano. Abbiamo 23 amici in comune su Facebook, non fuma, beve tè, adora viaggiare, ha pubblicato cinque raccolte di poesia:

Frammenti viola (2016 - 96, Rue, de-La-Fontaine)
Sbilanciamenti interiori (2017 - Vitale Edizioni)
Il pomeriggio della tigre (2018 . Terra d'Ulivi)
Collezione privata (2021- Puntoacapo)
L'ocra in punta di lingua (2023 - LietoColle)
*li ho letti tutti

giovedì 2 novembre 2023

Carmine Mangone




LA RIVOLUZIONE ANTI SEMIOTICA 

DI 

CARMINE MANGONE

 “Non ho mai avuto un alfabeto tranquillo, servile,
   le pagine le giravo sempre con il fuoco.”

Nessuno meglio di questo verso, di Claudio Lolli, credo sarebbe in grado di descrivere la poesia di Carmine Mangone, a mio modesto parere uno dei più grandi poeti viventi. “Incastrato tra fuoco e lacrime” è un capolavoro di lotta e resistenza, una silloge solitaria volta a schiantarsi contro il marasma del quotidiano sopore democratico.

“…lontano/nelle città dove si massacrano i/ bambini a colpi di favole/ il rigagnolo dei pensieri che io sono/ via crucis/ con fermate a richiesta dove scende la notte.”

Niente è più realistico dell’assurdo, Mangone questo lo ha compreso e, consapevole del fatto che solo nella lotta si è vivi, cerca di trasmettere la propria visione – anti semiotica – di un mondo ‘parcheggiato’ in divieto di sosta da oramai troppi lustri.
Pare di comprendere, dai suoi versi, che il vero rivoluzionario sia l’antirivoluzionario, lungimirante nella prospettiva che pure la morte vada guadagnata in questa società dove non si produce più nulla, nemmeno parole.

“sfidare le cose
armarsi del proprio sangue
banale squisitezza del dolore
il dramma nel corpo che è la vita.”

La poesia come scoscendimento di questa matrioska di modelli che formano il pianeta per disinformarlo attraverso un linguaggio minimale e insignificante. Mi rendo conto di avere tra le mani un oggetto ‘violento’, ‘sovversivo’, ma infinitamente prezioso, forse il più prezioso tra tutte le cose che abitano questa casa. L’unica cosa che posso fare, ora, è donarlo, divulgare a chi voglio bene questo pensiero, ho avuto la fortuna di averlo e come dice un antico proverbio; tutto ciò che dai è tuo per sempre, tutto ciò che tieni è perduto. Carmine Mangone è un figlio delle stelle, un gladiatore di espressione, un risvegliato.Y

“un cazzo coronato di spine
il vuoto osceno della morte
faccio cucù agli imbecilli
e ai loro impacchi di spirito santo”

CARMINE MANGONE – INCASTRATO TRA FUOCO E LACRIME ( CITY LIGHTS ITALIA – 1998) in appendice: ANCHE IERI HO DIMENTICATO DI MORIRE - seconda edizione (1993) e NON DENTRO METAFORA - Parigi 1998 (feat. ANTONIO BERTOLI)

giovedì 26 ottobre 2023

Patrizia Garofalo


 L'UNICA SUPERIORITÀ PRATICABILE È IL DUBBIO (il riff poetico di Patrizia Garofalo)

La poesia è nutrimento, così, come una buona pietanza si fa accompagnare da un buon vino, una buona poesia se accompagnata a buona musica migliora e ti migliora. Per l'esordio letterario di Patrizia Garofalo ho scelto un Brubeck d’annata e sono rimasto molto soddisfatto. La poesia della Garofalo è surrealismo dai piedi ben radicati sul reale, una cattività selvatica. “La complessità dello sguardo” è un titolo rilevante: racchiude una commistione tra paesaggio e prigionia. Da questa considerazione diventa fondamentale estrarne l’ora d’aria, punto indissolubile d’incontro tra mistero e ovvietà. La Garofalo sembra essere sempre dove non abita, un’isola mai nata, quasi destinata alla benevolenza delle maree, si definisce osservando il vento votato a mettere a nudo le trasparenze del mare. Confessa di avere intuito di come la maggior parte delle persone abbia smesso di vivere il reale, narra il suo sentirsi estranea attraverso l’inconsistenza e l’incapacità emotiva del prossimo al cospetto del risveglio. Trasparenze, fantasmi, da cosa si nasconde il poeta? L’uomo inerme che non si spaventa più nemmeno delle abominazioni dell’uomo, il mare come unico sconfinato limite, ma pur sempre fatto di acqua che scava come un dolore da narrare attraversando l’improbabilità del tempo tra le aurore sterminate. Poi ecco il sogno che riappare, a dire chi siamo o chi non siamo stati, o soltanto per aiutarci a conoscere la fine, quella fine che sappiamo bene dentro di noi, almeno la Garofalo l’ha intuita [… Il silenzio è una parola più lunga del dire…] ponendosi domande giuste, dubbi fuori dagli schemi. C’è, dentro ad ognuno di noi, un animale imprigionato, condannato a burocratica morte, la visione della poetessa cilentana potrebbe apparire come una arrendevole accettazione che il bello sia oramai nascosto da bambagie provenute da un altro tempo a ‘salvarla’ dalla ribellione degli occhi, perché questo tempo non è buono, è [un bagliore di cose inumate]. Ma Patrizia, armata di inchiostro, lotta, rimane sulla terra lasciando agli occhi la facoltà di un delirio proprio, incitando la natura a prendere il sopravvento, riflettendo il suo vecchio volto di ragazza perso ad ammirare la bellezza di una terra, che se fossi io -Dio- la eleggerei a paradiso “per il grembo triste di un’antica dea che qui smarrì la sua bellezza.” Ma l’improbabilità del tempo è inesorabile, macina ogni cosa, ogni dove, ogni pensiero… [… qui posso rivedermi com’ero, in un vecchio giardino che ora è quasi un cimitero.] Ognuno di noi, in fondo, proviene da quel luogo, lo si ricorda fin da bambini.

 *****

Patrizia Garofalo da Agropoli, segno del toro, in media una cinquantina di bagni in mare all’anno, intollerante all’uovo, sguardo di chi non fuma… ma mi sono sbagliato, mi ha poi detto che fuma. La complessità dello sguardo (L’argoLibro Editore 2019) è la sua prima silloge poetica pubblicata.

 

mercoledì 18 ottobre 2023

Daìta Martinez

 


L’ARTE DEL TRAMANDARE DI SUA ENTITÀ daìta martinez

La poesia di Daìta Martinez non appartiene a nulla, non è paragonabile, non è misurabile, semplicemente è. Detto questo, dopo il punto dovrei andarmene via da tutto e tutti, perché leggere Daìta è una di quelle esperienze che cambiano la visione della vita, fa bene e fa male, ti lascia felice e triste. La poesia della Martinez la si può concentrare in una semplice parola: immanenza.

 

Lascio lo spazio perché davvero mi sembra che ogni parola da me scritta non aiuti a comprenderla appieno, penso di non sapere neppure pronunciare bene il suo nome, neanche ci provo per timore di venire travolto dalla sua fonematica stentorea. Nella vita niente è perfetto e tutto è perfettibile, la poesia di Daìta no: è gigantea. Adopero questo epiteto non a caso, parafrasandola direi che dentro la sua poesia la mia fragilità ha trovato un alloggio.  Daìta trasmette l’eleganza di chi non perde mai placidità, nemmeno dinanzi a “l’abbaglio di una incuria”, ed è una flemma caleidoscopica quel liberare la poesia dagli schemi convenzionali come fosse la sua vocazione, liberare e dare: “liberDare”. Da una silloge come “. la bottega di via alloro .” nasceranno altre cento poesie, questa è la meraviglia della poesia, questa è Daìta: un tramandare. Artista capace di trasformare il verticale in orizzontale, creando quel zig zag interiore che allarga le prospettive, l’orizzonte. Leggendo Daìta sono arrivato alla personale conclusione che un altro mondo poetico sia possibile, meno incline alle regole, più accessoriato di sentimenti, un breve infinito […s’innamora sotto i portici il cardellino] assolutamente tutto minuscolo, perché nessuno è diverso da un altro se non nelle piccole cose, quelle uguali per tutti. La Martinez non ha una poesia in particolare che colpisca, quella che, tradotta in musica,  si chiamerebbe hit, ma è l’insieme del suo percorso la sua forza, la sua inarrivabilità. Un qualsiasi poeta, dopo aver letto nella sua interezza Daìta, può continuare a sentirsi tale soltanto al di fuori di sé.  Nella poetica della Martinez si coglie la natura, con il suo ritmo, la geometria, con le sue forme, la materia, con i suoi spazi, l’arte, con la sua mimica cartacea. “Possiede una soavità interiore che quando la mostra è forse così che è nata la musica.”

*****

(giorno di seta)

ho sdraiato l'ombra
poi
il seno ho allungato
nel gorgo di un istante.

(giorno di seta)

odorosa empietà
l'abbaglio di una incuria.

filato d'arancio
disgiunto
in trama estrema
sul dosso del tramonto.

da: (dietro l'una) LietoColle-2011

*****

. bambina .

squarcia persiana
indivisa locuzione
la dottrina dei seni

sbucciata prospettiva
oscilla ceramica dei tetti
e ricado
marina consistenza
palpebra traviata velatura

slaccia ruscello
didascalico adito
di grazia colmo sotto lo scaffale

addormentato verso d'usignolo
il volo scorrevole della porta
suo stonato spegnersi

. bambina .

da: . la bottega di via alloro . LietColle-2013


*****

è bellissimo il silenzio indaffarato delle vene
il peso del nulla chiaramente si annulla sulla
bocca l'ombra dei gusci d'uovo e soltanto le
finestre appena gonfie a mezz'aria belano ai
fiori innamorati tra le ciglia spente della folla
nell'unico intervallo del quadro un uomo e la
donna si scambiano il tempo in un abbraccio

da: il rumore del latte   Spazio Cultura Edizioni - 2019

*****

il prato di latta ha margherite colorate nei
sogni dei bambini attesi al ballatoio stesi
su una minuscola foglia oltrepassata nella
sera giù a piccoli gorghi di silenzio trema
il tempo discosto in un fragilissimo inizio
sul grembo affamato di altra luna cadente
sul viso dove siedono i sogni dei bambini
dopo la questua la preghiera e quel finire
a mano il ricordo più lento odoroso vento
con occhi della piccola grazia ribelle alle
stelle pi n'anticchia di beni attummuliatu
rina rina dintra 'a vucca ca scunta e nenti
cunta di lu scanturisorto al venuto bacio i
lividi rosa della rosa d'argento nascosta e
riposta sul taschino dell'inverno prima del
mare prima di andare ai sogni dei bambini

da: liturgia dell'acqua ANTEREM-2021

*****

Daìta Martinez è nata un mercoledì di maggio, a Palermo, per proseguire -proficuamente-  il percorso lasciato in sospeso da Alfonso Reyes e Bianca Laura Saibante. Prende forma dalla moka poetica nel 2011, anno della sua prima pubblicazione (dietro l’una).  E sempre in quell’anno la ricordo come ministro degli esteri del governo tecnico Taravella. Poetessa di mare, o per meglio scrivere, pescatrice di parole, decora il creato con limbelli di dialetto siciliano, così da contraddistinguere il proprio linguaggio poetico. Esperta rollatrice, da giardino e da spiaggia, abita il silenzio del mare. Daìta ha all’attivo sette pubblicazioni, più una plaquette di recentissima uscita. Imminente una sua nuova esperienza poetica, dal titolo a me ancora sconosciuto (perché non mi sono azzardato a chiedere).

daìta martinez scout:

(dietro l'una) 2011-LietoColle
la bottega di via alloro 2013-LietoColle
la finestra dei mirtilli (con Fernando Lena) 2019-Salarchi
il rumore del latte 2019-Spazio Cultura Edizioni
'a varca di zagara 2019-MACABOR
nutrica 2019-LietoColle
liturgia dell'acqua 2021-ANTEREM
miros de mure 2023-Editura Cosmopoli

lunedì 2 ottobre 2023

Cristina Simoncini


 L’EMANCIPAZIONE POETICA DI CRISTINA SIMONCINI

Soltanto i poeti eleganti sono in grado di creare immagini, entrando nel cuore della gente mediante una descrizione esaustiva di vicende, appartenenti alla ristretta cerchia dei propri affetti, senza cadere nella banalità del sentimento. Cristina Simoncini dona alle proprie poesie una sorte in quanto memoria, una poesia scritta da Cristina viene liberata dalla costrizione commemorativa nella quale spesso un ricordo va a recintarsi, essa assume nuova tendenza attraverso gli occhi del lettore, la sua genialità consiste nel rimanere fedele all’atto simbolico diaristico di una narrazione, riuscendo a rendere straordinario il semplice. Leggere la Simoncini lascia spesso senza parole: si crea, durante la lettura, l’atmosfera che riesce a dare in fotografia un campo lungo, cioè il riconoscere solo le cose ferme che sono, o paiono, senza vita. Provate a leggere la Simoncini ad alta voce, vi ascolteranno perfino gli animali, immobili come le esibizioni da campo lungo descritte prima, immobili ma vivi, stupiti pure loro. L’incanto non contempla la fretta. E qui, riprendo il discorso, dopo la lettura entra in scena il silenzio, si rimane senza parole: l’assoluto, in fondo, è un silenzio. Fermo, composto. Tutto ciò che si muove è destinato a scomparire, la Simoncini lo sa bene, dimostrandolo attraverso l’eleganza con la quale inchioda alla pagina il lettore.

*****

*****

C’è intorno una dolcezza di volto,
si esercita nella mimica d’amore
nello sproposito di bocche.
Tu in piedi a osservare
il lungo abbraccio,
a insidiarlo con piccole saette
nello sguardo.
La sigaretta si accascia
e il buio si piega un’altra volta,
le parole si spingono
nella confusione.

  *****

certe sere in cucina dominava su tutto
il rumore sfaccendato delle sedie,
un tintinnio di luce sui vetri ravvivava
il tempo sonnolento – la sciatteria di tazze nel lavello,
parlavi e qualcosa, come un lampo di grazia,
sollevava anni di polvere dalle spalle
pigre e supponenti di tua madre
(a guardarla di sfuggita la attraversava
un’ombra, la latenza di un sorriso)

  *****

Mia madre non è morta in una volta sola
non l’ha spenta un ultimo fatidico respiro
come succede al resto della gente
se n’è andata con calma cominciando dai piedi
che si son fatti duri e gelidi come nelle statue
interrompendo il transito dei passi
poi è toccato al marmo delle braccia
arreso in una croce sul torace
che a fatica sotto quel peso si sollevava
gli occhi impauriti sono rientrati
nell’abisso insondabile dell’interiore
l'ultimo è stato il naso scolorito
che sventolava a mezz’asta in segno di commiato
quel poco di lei che rimaneva
stava intanato nel muscolo cardiaco
diffondeva nell’aria piccole pulsazioni
un alfabeto Morse con cui esortava
le persone amate, Su, fate presto, salutate!

*****
Nei suoi occhi brillava
a giorni una luce inviolabile
c’è sempre un segreto negli altri
una maniera di mancare
la vedevo affacciarsi a una finestra
e con un tintinnio innocente di parole
scivolare fuori dal suo vero
allontanare il grido dalla bocca.


Cristina Simoncini porta luce sul pianeta terra in un giorno di marzo, stando al calendario gregoriano, ma circa un mese prima aveva già manifestato la propria presenza contribuendo a far abolire, dopo oltre quattro secoli, l’indice dei libri proibiti. Dal suo predecessore, uno stimato poeta e drammaturgo di etnia baschira, tale Muchametsa Burangulov, ha appreso lo spirito di osservazione. Ed è da questa commistione che prende corpo il suo naturale talento, atto a trasformare anche un ordinario scambio di vedute in poesia. Dai suoi fonemi si evince un amore sconfinato per la filosofia, la vera figura retorica “fantasma" di tutte le sue ispirazioni, sebbene vada sottolineato che spesso la figura letteraria del protagonista sia insidiata dall’indipendenza delle immagini trasmesse. Cristina ha smesso di fumare, sorride a tutti, mangia patatine e guarda film.

ENCICLOPEDIA DEL FAR NIENTE la crestomazia sbriciolata di un sé - Nota critica di FRANCA ALAIMO e quattro poesie controindicate.

  In genere le sezioni di un libro servono a sottolineare le diverse tappe tematiche del discorso. Ed, invece, in "Enciclopedia del far...